Il caso Riina – come è noto la Prima Sezione Penale della Cassazione (Sent. 27766/ 2017) ha rigettato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza Bologna, che respingeva la richiesta avanzata da Totò Riina, il quale, affetto da gravi problemi di salute, chiedeva la sospensione della detenzione o la concessione della detenzione domiciliare.
Molti sono stati i politici che si sono scagliati contro tale sentenza e molti sono i media che hanno espresso parere negativo in ordine alla scarcerazione del Boss dei Boss.
Tutti prendono in considerazione l’efferatezza dei reati commessi dal detenuto, nonché, si interrogano sull’opportunità di concedere il perdono in tali circostanze.
In realtà, un operatore del diritto, per rispondere al quesito se il Capo di Cosa Nostra debba rimanere in carcere o meno, non deve interrogarsi, né sulla gravità, né sulla natura dei reati commessi e neanche sull’opportunità di concedere il perdono, bensì, deve verificare la sussistenza di norme giuridiche che regolano il caso concreto.
Riina ha 86 anni, è detenuto da 24 anni con regime del 41 bis e versa in grave stato di salute.
Questi, e solo questi, sono gli elementi su cui dovrà essere fondata la nuova decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che dovrà prestare debita attenzione a motivare compiutamente ogni passaggio logico della futura ordinanza, al fine di addivenire ad una pronuncia coerente con i principi fondamentali dettati dall’Art. 27 della Carta Costituzionale secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrai al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“, dall’Art. 134 della medesima Carta dei Diritti secondo cui “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, nonché, da quanto disposto dall’Art. 146 c.p. ai sensi del quale “… l’ esecuzione della pena è differita quando … la malattia è particolarmente grave ed a causa della quale le condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione …” e dall’Art. 147 c.p. che recita “… L’esecuzione della pena può essere differita … se la pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica …”.
Infatti, i Magistrati, non devono cedere alla tentazione di attuare una vendetta, ma essendo l’anima dello Stato di Diritto, non possono che applicare l’unica Legge esistente e cioè quella che il nostro Ordinamento si è data.
L’operatore del diritto, può comprendere l’amarezza, lo sdegno, la frustrazione dei parenti delle vittime, che tremano e rabbrividiscono alla sola idea che il carnefice dei loro cari possa lasciare il carcere anche per un solo giorno, ma tali sentimenti non possono essere posti a fondamento della sua decisione, perché l’Ordinamento non può abbassarsi allo stesso livello di disumanità del peggiore dei criminali.
D’altra parte, il Giudice, per orientarsi in questa vicenda deve far riferimento al brocardo Latino secondo il quale : Ubi societas, ibi jus ( dove è una società, lì vi è il diritto): non vi può essere alcuna società civile senza leggi, in quanto l’uomo, che Aristotele non a caso definiva animale sociale, ha bisogno di regole giuridiche per poter vivere insieme.
Alla luce di queste considerazioni, ed in attesa della nuova decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, chiunque si interrogherà su cosa sia giusto fare nel caso in esame, non potrà che mettere sul piatto della bilancia, da un alto, il comune sentire, dall’altro, il Diritto.
Avv. Simone Cagnetta