Il “Caso Morosini”: se per la scienza esiste anche solo una chance di sopravvivenza, il medico è obbligato a tentare!
Si chiamava Piermario Morosini, bergamasco del 1986, giocatore di calcio, cresciuto nelle giovanili dell’Atalanta, e dopo un lungo peregrinare per i campi di calcio del nord Italia, nel 2012, il trasferimento a Livorno e quella “amaranto” è stata la sua ultima casacca, prima che il cuore cessasse di battere.
14 aprile 2012, Stadio Adriatico di Pescara, si giocava il 31 esimo minuto, del primo tempo, della 28 esima giornata del campionato di serie B, tra il Pescara Calcio ed il Livorno Calcio: Morosini cade a terra, si rialza, cade di nuovo.
Non un comune contrasto di gioco, ma un malore.
I compagni di squadra e gli avversari bloccano il gioco e chiamano a gran voce l’intervento di un medico e l’arrivo dell’autoambulanza. In pochi minuti, raggiungono il calciatore, tre diversi medici: il Dott. Vito Molfese, del 118 di Pescara, il Dott. Manlio Porcellini, medico sociale del Livorno Calcio, ed il Dott. Ernesto Sabatini, il medico sociale del Pescara Calcio.
C’è un defibrillatore, lì allo Stadio Adriatico. Lo sanno i tre medici, ma non lo usano.
Provano disperatamente altre manovre di salvataggio, ma il defibrillatore resta chiuso nella sua custodia. Portato all’ospedale, il giocatore moriva alle 16:45.
Il 2 luglio 2012, venivano resi pubblici i risultati definitivi dell’autopsia: a causare la morte di Morosini, una grave patologia congenita.
Dunque, unica responsabile per la morte del calciatore, la genetica? No. Il Sostituto Procuratore, Dott.ssa Valentina D’Agostino, stupiva tutti nella sua decisione di aprire un fascicolo per omicidio colposo a carico dei tre medici intervenuti sul campo di calcio.
Quale sarebbe stata, secondo la Procura, la condotta colposa dei medici? Non aver utilizzato il defibrillatore. Così, infatti, il PM concludeva la sua requisitoria innanzi al Giudice monocratico di Pescara: “… Non avremo mai la certezza che seguendo correttamente il protocollo si sarebbe salvata la vita di Morosini, ma è inaccettabile che quando esiste una chance chi ha il dovere di agire non agisca …”.
In altre parole, i medici, con il loro comportamento omissivo, avevano privato il giocatore di una possibilità di salvarsi, e per tale motivo, dovevano essere condannati.
Il 13 settembre 2016, a distanza di quattro anni dalla morte di Piermario, Il Giudice monocratico di Pescara, Laura D’Arcangelo, contro ogni previsione, e contro ogni giurisprudenza pregressa, condannava i tre medici.
Ma dove sta la novità?
Sino alla pronuncia di quel dispositivo, la “perdita di chance di sopravvivenza” poteva portare ad una condanna in sede penale, solo ed esclusivamente qualora, all’esito del dibattimento, fosse stato scientificamente provato che, nel caso in cui il medico si fosse adoperato seguendo il protocollo, il paziente, con alta probabilità, si sarebbe salvato ( c.d. regola del “più probabile che non”). Oggi, sembra proprio che, la chance, per essere “penalmente” rilevante, non debba essere necessariamente elevata, ma l’importante è che vi sia.
Morosini, forse non aveva grandi possibilità di salvarsi e forse l’uso del defibrillatore non avrebbe cambiato le sue sorti, ma se per la scienza sussisteva una qualche possibilità che quello strumento poteva lasciarlo in vita, il giovane giocatore aveva il diritto che quel tentativo venisse fatto, ed i medici, il dovere giuridico di intervenire in tal senso.
Il caso Morosini è solo uno dei numerosissimi casi in cui i familiari di chi è deceduto a seguito d’incidente, malattia o malore, hanno poi puntato il dito contro i medici, ritenuti colpevoli, ora, per non aver disposto la TAC, ora, per non aver prescritto quel particolare esame, ora, per non aver pensato a quella particolare cura: “… se il medico avesse fatto quell’intervento, forse poteva salvarsi …!”.
Orbene, se quel forse, sin qui, pesava come un macigno sul desiderio di giustizia dei familiari, precludendo quasi sempre l’azione penale (gran parte della procedure venivano archiviate), e spesso, rappresentando un notevole ostacolo anche per il semplice risarcimento del danno, oggi, nella misura in cui la “sentenza Morosini” verrà confermata sino ai massimi gradi di giudizio, potrebbero aprirsi le porte verso una più ampia ed efficacia tutela della “perdita di chance di sopravvivenza”.
Prendendo spunto dalla triste vicenda di cui sopra, prossimamente torneremo a riflettere sul tema “ perdita di chance di sopravvivenza“, domandandoci quanto la “sentenza Morosini” avvicina la concezione di “chance penalistica” a quella “civilistica” e quando, detta voce, può essere risarcita. Rifletteremo, inoltre, sui parametri che portano alla sua monetizzazione, e ci interrogheremo sulla trasmissibilità agli Eredi, del danno da perdita di chance di sopravvivenza, subito dal proprio congiunto deceduto.
Avv. Lorenzo Murgia